CAPITOLO 2 (1947-1951)
Estratto dal libro di Paolo Popeschich
“Beniamino Massimo, Un pittore romano”
Tornato in Italia, dopo un iniziale
soggiorno a Roviano, avvia la sua carriera di fotografo di scena negli studi di
Cinecittà, aprendo un piccolo studio a Roma, in via del Pellegrino, nei pressi
di Campo dè Fiori, che utilizzerà anche come abitazione fino alla sua
scomparsa.
(…)
Il suo lavoro viene particolarmente
apprezzato nelle produzioni di pellicole storiche in costume del genere
“peplum”, che rappresentano il suo principale impiego negli anni cinquanta e
sessanta, periodo durante il quale matura l’idea di dedicarsi alla pittura,
come si evince dalla sua corrispondenza con alcuni ex allievi di Hofmann,
missive che continueranno fino al 1959.
Da questa corrispondenza emerge
l’urgenza di affiancare la quotidiana rappresentazione realistica, che gli
veniva consentita dalla fotografia, con l’ambizione astratta per una pittura
assolutamente piatta, nel rispetto del tratto distintivo della tela e dei dogmi
di Hofmann, secondo il quale il compito del pittore era quello di disporre i
propri pigmenti colorati con una pittura inerte, rifiutando il descrittivismo e ogni pretesa simbolista o
psicologica, aspirando quindi alla pura astrazione, in particolare una
astrazione geometrica dove il colore è rappresentato in quanto tale. Al tempo
stesso rivendica il suo essere artista dietro la macchina fotografica,
impegnato quotidianamente nel ritrarre figure di attori che recitano in costume
storie basate sulla mitologia greco-romana, quindi dentro una realtà “altra”
rispetto a quella del quotidiano dopoguerra, per di più sviluppando sempre in
bianco e nero, prendendo le distanze dagli autori della “copia del reale”. La
sua fotografia vuole intenzionalmente lasciare spazio all’immaginazione, sia
per la capacità evocativa del soggetto mitico, sia per le forme che emergono
nelle sue composizioni, nelle quali le ombre hanno la stessa importanza delle
figure in primo piano, creando delle texture che vengono poi riportate su tela,
dando vita a dei veri caleidoscopi, dove
convivono strutture quadrate e curvilinee, in un insieme di ampie campiture
cromatiche.
Il clima ricco di iniziative
culturali e civili del dopoguerra gli
consente di iniziare con slancio la propria ricerca, entrando in contatto con
gli ambienti dell’avanguardia astratta romana, grazie al mondo del cinema e
alle comuni frequentazioni dell’Osteria Fratelli Menghi, luogo di incontro per
pittori, attori e scrittori. In questo contesto nel 1949 conosce alcuni
coetanei già componenti del Gruppo Forma 1: Ugo Attardi, Pietro Consagra, Piero Dorazio, Achille Perilli,
Carla Accardi, Antonio Sanfilippo e soprattutto Mino Guerrini
con il quale, oltre al nomignolo di battesimo, condivide la passione per il
cinema.
Spinto anche dall’impegno politico,
si mette al servizio come fotografo del gruppo “formalista e marxista”, per poi
proporsi come autore di dipinti incentrati sulla forma e sul segno nel loro
significato basico essenziale. Nonostante l’assidua frequentazione e
l’occasionale partecipazione in esposizioni collettive estemporanee che si
tenevano negli studi dei diversi artisti, la sua presenza come artista viene
appena tollerata dalla maggioranza dei firmatari del manifesto formalista, che
non nascondono una diffidenza di base per la mancanza di una solida
preparazione accademica, a cui si aggiungevano la professione di fotografo,
tendente quindi alla divulgazione popolare di un immaginario figurativo tipico
del cinema di genere, ma anche e soprattutto i sui trascorsi bellici e di
prigionia che mettevano in dubbio la lealtà ai presupposti ideologici del gruppo.
Questa distanza, oltre a segnare la
fine della sua esperienza con i protagonisti dell’arte concreta, terminata
difatti nello stesso anno dello scioglimento del Gruppo Forma 1, influenzerà la
successiva ricerca di un linguaggio personale, sempre teso a conciliare
astrazione e figurazione, con composizioni geometriche capaci di affrontare il
problema della visione dell’invisibile, tra sublimazione per i numeri di
Pitagora e dimensione estetica della forma.